A differenza di quanto sostiene il Governo lo stato dell’occupazione in Italia non appare, secondo un articolo di Tito Boeri, così roseo come si vorrebbe far credere. "...Infatti secondo le ultime indagini sulle forze lavoro se la disoccupazione continua a calare non è da iscriversi alle politiche governative ma soprattutto alla diminuzione delle persone in cerca di lavoro. Aumentano i "lavoratori scoraggiati", quelli che rinunciano a cercare lavoro, più che gli occupati ed il Mezzogiorno registra un vistoso calo del suo tasso di occupazione.
La quota di lavoratori temporanei sul totale del lavoro dipendente è ulteriormente aumentata nell’ultimo anno, portandosi al 13,4 per cento. Per le donne l’incremento è stato quasi di un punto e mezzo: oggi una donna occupata alle dipendenze su sei ha un contratto a tempo determinato. Molte altre donne gonfiano le fila del lavoro parasubordinato...".
Ora, se l’analisi sull’occupazione in Italia è condivisibile, la stessa cosa non si può dire della ricetta proposta (contratto unico) da Boeri, che sostanzialmente aumenta lo stato di precarietà non solo dei giovani ma di tutti i lavoratori che vengono licenziati o che semplicemente cambiano lavoro.
Per Boeri questa situazione dovrebbe essere affrontata con più determinazione rispetto a quella mostrati dall’attuale governo e da quello precedente e quindi rilancia la tesi del contratto unico per tutti i lavoratori. Un contratto dove viene reintrodotta la possibilità di licenziare e quindi far passare per la finestra l’abolizione delle tutele e delle garanzie previste dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
L’esperienza dei paesi industrializzati dimostra che dove c’è lavoro non esiste la precarietà
e che la flessibilità non crea lavoro, ma genera precarietà in quanto produce solo una diluizione del lavoro: la stessa quantità di lavoro viene divisa tra più lavoratori con costi minori per le imprese.
Quindi ricercare ulteriori forme di flessibilità (o di selezione) dei lavoratori non porta lontano e fa il paio con quanti propongono di introdurre dazi per fronteggiare la concorrenza delle merci cinesi, senza comprendere che il terreno sul quale competere si chiama innovazione, ricerca, valorizzazione del lavoro, formazione e crescita professionale che senza la stabilità del posto di lavoro diventa impossibile.
Forzare la mano sulle forme nuove o vecchie di flessibilità del lavoro è una politica non solo miope ma che accetta che il sistema Italia competa non sul terreno dell’innovazione ma su quello della bassa tecnologia.
Opporsi alle nuove precarietà è condizione per cambiare l’attuale modello economico sociale, fondato sulla compressione del lavoro e sulle politiche assistenziali e delle grandi opere che rischiano di rimanere cattedrali nel deserto industriale del sistema Italia.
Ezio Casagranda - Filcams Cgil del Trentino
Trento, 27 settembre 2007
La quota di lavoratori temporanei sul totale del lavoro dipendente è ulteriormente aumentata nell’ultimo anno, portandosi al 13,4 per cento. Per le donne l’incremento è stato quasi di un punto e mezzo: oggi una donna occupata alle dipendenze su sei ha un contratto a tempo determinato. Molte altre donne gonfiano le fila del lavoro parasubordinato...".
Ora, se l’analisi sull’occupazione in Italia è condivisibile, la stessa cosa non si può dire della ricetta proposta (contratto unico) da Boeri, che sostanzialmente aumenta lo stato di precarietà non solo dei giovani ma di tutti i lavoratori che vengono licenziati o che semplicemente cambiano lavoro.
Per Boeri questa situazione dovrebbe essere affrontata con più determinazione rispetto a quella mostrati dall’attuale governo e da quello precedente e quindi rilancia la tesi del contratto unico per tutti i lavoratori. Un contratto dove viene reintrodotta la possibilità di licenziare e quindi far passare per la finestra l’abolizione delle tutele e delle garanzie previste dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
L’esperienza dei paesi industrializzati dimostra che dove c’è lavoro non esiste la precarietà
e che la flessibilità non crea lavoro, ma genera precarietà in quanto produce solo una diluizione del lavoro: la stessa quantità di lavoro viene divisa tra più lavoratori con costi minori per le imprese.
Quindi ricercare ulteriori forme di flessibilità (o di selezione) dei lavoratori non porta lontano e fa il paio con quanti propongono di introdurre dazi per fronteggiare la concorrenza delle merci cinesi, senza comprendere che il terreno sul quale competere si chiama innovazione, ricerca, valorizzazione del lavoro, formazione e crescita professionale che senza la stabilità del posto di lavoro diventa impossibile.
Forzare la mano sulle forme nuove o vecchie di flessibilità del lavoro è una politica non solo miope ma che accetta che il sistema Italia competa non sul terreno dell’innovazione ma su quello della bassa tecnologia.
Opporsi alle nuove precarietà è condizione per cambiare l’attuale modello economico sociale, fondato sulla compressione del lavoro e sulle politiche assistenziali e delle grandi opere che rischiano di rimanere cattedrali nel deserto industriale del sistema Italia.
Ezio Casagranda - Filcams Cgil del Trentino
Trento, 27 settembre 2007
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